La mia prima casa

Civico 7 e dintorni

«Abito in centro, Via Chiodo, civico 7. Giusto dopo l’asilo, la seconda casa sulla sinistra».

«Ma è la strada che porta al cimitero!»

Dio come mi vergognavo. Non c’era un altro posto? Si doveva mettere su casa proprio là?

La mia era nella stessa via del camposanto. Non ci vedevo niente di strano, ma che fossero gli altri a farmelo notare mi dava fastidio.

A me piaceva dove vivevo, non la casa, mi attraeva quello che c’era fuori.

Di fronte, sulla destra, si apriva uno spiazzo ampio, recintato solo sul davanti da un muretto di mattoni d’argilla malmessi. Dell’abitazione che c’era prima che rovinasse, non restavano che i ricordi sbiaditi di mia madre, che sospirando raccontava delle persone che ci abitavano, di quanto le mancasse avere buoni vicini. Di solitudine.  

Che ci fosse la sagra paesana o meno, nello spiazzo vi sostavano i giostrai con le loro roulotte a semicerchio, al centro le giostre. In pratica gli autoscontri ce li avevo davanti al portone di casa, giusto al di là della strada.

Visto che mio padre con un tono che non ammetteva repliche era solito intimarmi di non uscire dal cancello, io mi ci arrampicavo, e tenendomi salda ai paletti, la faccia incastrata nel mezzo che manco un carcerato di Alcatraz, me ne stavo appesa a guardare. Per ore.

Quando invece arrivavano i caravan del circo, il tendone di stoffa che pareva sollevarsi da solo verso il cielo, i circensi che accudivano gli animali, le balle di fieno a delimitare i confini, erano già di per sé uno spettacolo.

La pompa dell’acqua nel nostro giardino sarebbe stato il pass per la felicità, un po’ come lo zucchero filato, meglio se di colore rosa, che a mangiarlo a occhi chiusi mi faceva pensare alle nuvole.

A quel tempo eravamo in sei, due dei miei fratelli non erano ancora nati, chi se lo sarebbe potuto permettere il circo.

L’acqua della pompa non era un baratto, ma uno scambio di favori tra madri di famiglia.

Mia madre e la “Signora del circo”, così la chiamavo, erano quasi amiche. Si ritrovavano a chiacchierare di quello che avrebbero messo in tavola quella sera, di mariti che lavoravano duro per portare i soldi in casa, la scuola che costava troppo, di compiti che la signora del circo assegnava ai figli che non avevano altro per la testa se non quei tre-animali-tre.

Ho sempre abitato in luoghi chiassosi. Anche adesso. Se mai lascerò la casa dove vivo, non dovranno esserci parcheggi, parco giochi con giostrine e scivoli vari, piste di pattinaggio, e men che meno il campetto per la pallacanestro.

Sbong, sbong, sbong, ve lo immaginate, sbong, sbong, sbong, il rumore del pallone ad ogni, sbong, rimbalzo, nei fine settimana? Sbong, sbong.

Dopo ore di sbong viene facile innervosirsi, giusto un po’, speri solo che arrivi presto sera, che a quei ragazzi la fame gli arrivi alle orecchie, che c’abbiano da studiare per l’interrogazione del lunedì, che i genitori vengano a prenderseli con un – bocia, gambe in spalla e camminare, – come a volte mi diceva mio padre a una decina di metri, giusto perché sentissero tutti.

Ne ho fatte di corse e di giochi a nascondino, prigioniero o libero e ruba bandiera, in quello spazio ricoperto di sassi dove un tempo c’era la vecchia casa dei Bigarella.

Sulla sinistra si apriva la campagna. Una stradina costeggiata di siepi di platano portava ad altre siepi, oltre c’erano un paio di case e ancora campi. Ci raccoglievo margherite in quei prati, andavo alla scoperta del mio mondo di ragazzina che faceva cose da maschiacci.

Bastavano un paio di acri di terra per vedermi in una prateria, andare a rane con l’amico Carlo, un Milanese scappato dalla città, e Giampietro che abitava giusto dietro all’ampio spiazzo ricoperto di sassi, per vivere una sorta di caccia che nemmeno un safari nella sperduta savana. Riuscire a catturarne una, cuocerla su un ceppo di platano delle siepi del Signor Beppi, mi faceva sentire alla pari di un cowboy che bivacca all’aperto.

La mia prima casa è ancora là, numero civico 7; qualche anno di troppo a parte, niente è cambiato, il cancello è ancora lo stesso, di colore marrone, in ferro pieno.

Il cortile dei Bigarella non c’è più, i sassi sono diventati erba, ci giocano i bambini piccoli di giorno, di notte adulti ancora più piccoli, con altri tipi d’erba si fanno un bobmarley.

Fronte casa un ampio parcheggio ospita il mercato del giovedì, e le rane si possono trovare solo nel banco frigo del supermercato poco più in là.

Poche centinaia di metri ancora c’è il cimitero. Da otto anni ci abita mio padre. Era marzo, 4 marzo 2012. Da lì in poi le cose brutte sono successe sempre a marzo.

Una di queste cade nel giorno della Festa del Papà.

Mia madre abita ancora al civico 7. Ma non esce quasi più.

Mi piacerebbe sentirla che mi chiama come quando la sua voce arrivava fino in fondo al campo, quello oltre la prima siepe.

«Cristinaaa, Cristinaaaaa, a casa, subito! O la cena la vedi passare solo col binocolo».


LA MIA PRIMA CASA

Grazie a “Il Portolano”, scuola di scrittura autobiografica e narrativa

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