All Blacks e depressione
La depressione non guarda in faccia nessuno, nemmeno se sei un All Blacks. Quando qualcosa si spezza, quello che rimane è una sorta di imbottitura che ti isola dalla realtà, dalla vita stessa.
Può succedere di percepirsi in modo distorto, di esagerare o minimizzare tanto da non distinguere cos’è reale o meno, di dare troppa importanza a quello che importante magari non è, ma il sentire umano è così vario e al contempo fragile, che emozioni come rabbia, paura, noia, tristezza, disperazione possono prendere il sopravvento. Un terapeuta capace, un rapporto empatico, partire dalla centralità della persona e non dalla sua malattia, essere trattati da Persone, sono ottimi punti di partenza.
Fondamentale sarebbe intuire di avere bisogno di aiuto da subito, per non cadere nella cronicità. Sembra facile, no? Ma capire che fare da soli a volte non è curarsi, ma rattoppare, fingere, recitare e nascondere il proprio sentire, non è davvero semplice. Chiedere aiuto, è un segnale positivo, una dimostrazione di forza, perché è un primo, seppure minimo passo, di percezione della realtà. Significa darsi una possibilità di guarigione, fortificare se stessi, e riappropriarsi della leggerezza di vivere, ritornare a una quotidianità possibile. Si è usi parlare di rottura.
Sgretolare è un termine che preferisco. Come se il nostro io fosse di una materia che inizia a franare dal nostro essere. Impossibile trattenerla, si diventa così fragili che, smottamento dopo smottamento, quello che eravamo, quello che componeva il nostro essere, è scivolato via. O meglio, non ci appartiene più.
Parlava in un italiano divertente, un po’ alla Oliver Hardy. Ma quello che diceva non era poi così divertente. La sua vita, la sua fantastica vita, per alcuni anni non è stata poi così fantastica. Ma come, un uomo che possiede tutto, successo, fama, notorietà, ricchezza, fascino. Ma gli mancava una cosa. Se stesso, la percezione di sé.
«Avevo davvero tutto, una bella famiglia, una moglie che mi vuole bene, viaggi, un lavoro che mi piace. Ma dentro ero come morto. Non sentivo niente. Avevo paura di tutto. Un giorno stavo tornando da una partita all’estero e in aeroporto mi è venuto un attacco di panico. Ero bloccato, non riuscivo a muovermi, non potevo camminare. Volevo rimanere là, avevo il terrore dell’aereo. Ma dovevo tornarmene a casa, non potevo non tornare in Italia, alla mia Treviso. La depressione non è una debolezza. La depressione è una malattia, io ero ammalato. La depressione non è una debolezza. La depressione è una malattia. Io ero ammalato, ero morto dentro» ripeteva quasi all’ossessione.
Ho sentito persone dire, «È uno di noi. Lo incontri per strada, ti saluta, ti chiede come stai, come ci conoscessimo da sempre. Non è un divo, lui è davvero uno di noi, come fosse sempre stato qua, come fosse nato in Italia».
I conti non tornano. Ma cosa può essere successo? Perché un uomo dal fisico statuario, benvoluto, a cui sembra non mancare nulla, cade in depressione? Non si tratta nemmeno di possibilità, i soldi per lui non sono mai stati un problema.
Venti chitarre. Tante ne aveva acquistato con l’intento di coltivare la passione per la musica. E non sapeva mezza-nota-mezza.
«Fare ogni giorno qualcosa che ti piace. Sforzarsi di fare qualcosa per se stessi».
Quelle parole non mi erano nuove. Le avevo sentite mesi prima. Ma ascoltarle da un personaggio pubblico, era diverso. Quasi acquisissero veridicità perché erano dette da chi la depressione l’aveva vissuta, respirata. E ne era guarito. Anch’io come lui, per un po’ non ho vissuto. Recitavo. Alcuni accadimenti stavano sgretolando anche il mio essere, di vivere serenamente non se ne parlava. Fingevo una vita che non mi apparteneva. Non so se fosse depressione o meno, so solo che così non potevo andare avanti. Non avevo fiducia in me, fingevo di essere quella che non ero, abbassavo lo sguardo e mi perdevo nei miei pensieri. Succede ancora a volte; ci sono mattine in cui indugio a letto, ma me lo concedo. Sto riprendendomi da mesi di terapie. Poi mi alzo e affronto la giornata con azioni semplici, ma che mi fanno stare bene.
Perché quando non stai per niente bene, rincorri solo la serenità.
Non ho comperato chitarre, anche se mi piacerebbe avvicinarmi alla musica. Suonare il pianoforte, è da sempre nei miei desideri, e il violino. Ma penso che non siano nelle mie possibilità artistiche. Quando mi sento particolarmente a pezzi, prendo la mia auto e vado a funghi in montagna. O comunque ci provo. Camminare non è il mio forte, adesso poi barcollo, ma stare a contatto con la natura merita uno sforzo in più. Uscire di casa, stare all’aria aperta, ha il sapore di conquista. Come sedersi in un bar, sorseggiare un cappuccino e osservare quel viavai di persone, vivere. Non so quanti comprendano il valore di questa carezza. Iniziare a volersi bene, almeno un po’: quanto ne è dovuto passare di tempo. Ma non è stata tutta farina del mio sacco. Ho avuto bisogno di aiuto. Aiuto propostomi per mesi e mesi, ma che avevo rifiutato.
Insisto nella mia idea: l’ammalato di una patologia importante, dovrebbe essere seguito da un terapeuta da subito, per capire se è un percorso che può affrontare con le proprie forze, o se necessita di sostegno. A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi accettato quell’aiuto nell’immediato, ma mi accontento di averlo comunque fatto. Lo vivevo come atto di debolezza, adesso so che non è così.
«La depressione non è una debolezza. La depressione è una malattia. Io ero ammalato, ero morto dentro».
Le parole di John Kirwan mi rimbombano ancora in testa. Lui che è l’emblema dell’uomo forte, per cinque lunghi anni si è sentito morto dentro.
Allora io non sono stata debole, ero solo ammalata. E chiedere aiuto è stato un vero atto di forza. Forza che sono felice di aver riscoperto in me. Forza che ogni tanto devo ancora impormi di ritrovare. Ma prima o poi so che diventerà un gesto naturale. Ogni tanto abbasso ancora gli occhi. Come se qualcosa mi offuscasse lo sguardo. Come se quella materia di cui è composto il mio essere, scivolasse di nuovo via.
Ma è un attimo, solo un attimo. Poi faccio un respiro profondo, e vado avanti.
Kirwan J. “Gli All Blacks non piangono. La mia vita la mia battaglia.” – Edizione Italiana: Ultra 2014