Uno studio condotto sulla popolazione italiana, rileva che l’assistenza ai malati di cancro, e non solo, è in gran parte a carico degli informal caregiver, ovvero coloro che accudiscono questi pazienti non appartengono al mondo sanitario, anzi. Sono quasi sempre dei familiari.
L’importanza di non sentirsi soli di fronte alla malattia.
Le piccole cose, come guidare, fare la spesa, passeggiare in una tiepida giornata primaverile, andare al mare, il piatto preferito, la minestra troppo calda, dimenticateveli. Il fisico è così fiaccato dalle cure, che potrebbero uscire delle vesciche in bocca, sulla pelle. Il sole potrebbe causarvi un’insolazione, la puntura di un comune insetto, la peggiore delle allergie, o un’infezione. Attenzione a non tagliarsi, si rischia un’emorragia. Fidatevi, succede davvero.
Un ammalato di cancro è come una farfalla, a toccarle le ali, si rischia di spezzargliele.
Aiutare un ammalato di cancro impegna tutte le forze. Se poi l’ammalato è un proprio familiare, tutto si complica. Un supporto immediato utile, è accompagnarlo per ospedali. A volte, anche poter contare su un contatto familiare, dopo un esame o un colloquio importante, o mentre aspetti per ore in una sala d’attesa, può essere di sostegno. E sapere di poter contare su un altro paio d’orecchi per districarsi tra tutti quei termini complicati che fino a prima della diagnosi nemmeno immaginavi esistessero, può fare la differenza.
Chemioterapia, radioterapia, effetti collaterali, vuoto, solitudine, paura, depressione, instabilità emotiva, sofferenza… Potremmo andare avanti all’infinito: sono tutte parole che causano uno spazio infinito tra le persone e la parola Cancro.
Io mi ritengo fortunata, al mio fianco ho sempre avuto mio marito. Durante le sedute di chemioterapia, sapere di poter contare sulla sua presenza, mi è stato di gran conforto. Conosco persone che non hanno avuto nessuno al loro fianco. Ne ho ammirato la forza e la determinazione. Non so se ci sarei riuscita, ad arrivare fino in fondo. E a giustificarne l’assenza.
Familiari | Persone che non se ne vanno
Nel mio percorso di malattia ho accusato molto la solitudine. Una alla volta le persone si sono allontanate. Ed è stato difficile. Ci sono momenti in cui tutto è amplificato, e per lenire il dolore, insopportabile, che ti porti dentro, hai bisogno di un qualcosa in più: più attenzioni, più amore, più risate, più comprensione, più… E se tutto questo ti viene a mancare? Se non riesci a tamponare le ferite che ti opprimono a toglierti il respiro? Forse la malattia stravolge e cambia così tanto da renderci irriconoscibili. Ma non ho visto grandi sforzi nei miei confronti. Ne parlavo in questi giorni con mio marito.
«Oltre alla malattia che ci ha stravolti, riportandoci ad incubi già vissuti, abbiamo dovuto rimediare al vuoto lasciato dalle persone, uno alla volta, sono cadute come birilli».
«Abbiamo fatto strike!» ha ribadito. Ne avremmo avuto bisogno di amici, erano quelli di una vita.
Certe persone, proprio non le capisco. E certe frasi nemmeno.
«Se mi racconti della tua malattia ci sto male, se non me ne racconti ci sto male. So che sto commettendo un errore, ma non ce la faccio. Se mi perdonerai, sai dove trovarmi».
Ma scusate, il cervello cotto per la chemio ce l’ho io, o gli effetti collaterali sono trasmissibili anche per vie aeree? Non tornerò sui miei passi, non perdonerò. Se lo facessi sarebbe come non rispettare me stessa. Qualcuno penserà che il perdono non si nega. Penso invece che il perdono lo si debba meritare, non pretendere. E se davvero so che sto commettendo un errore, provare a fermarmi no?
Non amo parlare della mia malattia. Trovo sia personale. Parlarne per informare gli altri significa tenere costantemente aperta una ferita. Di conseguenza non ho raccontato più di tanto. Quando uscivo con gli amici, lo facevo per svago, due risate, frivolezze. Rispondere alle loro domande, spesso di circostanza, sopportare quella smorfia spontanea all’angolo della bocca, mi dava fastidio. E ho deciso che non avrei raccontato più del necessario, non sarei stata un bollettino sanitario.
Tanto, la storia era già scritta, se ne sarebbero andati.
Me ne sono fatta una ragione, chi vorrebbe, anche da comparsa, affrontare un percorso di tumore? Non è da tutti sapere stare vicino alle persone. Ma non giustifico chi aggiunge dolore al dolore, quello proprio non ci è mancato. Chi riceve una diagnosi improvvisa, tortuosa, difficile, tende a sviluppare una sensibilità amplificata, diventa tutto più grande, più brutto. Più, insomma. Tanto da avere bisogno di un qualcosa in più. Per me quel più significa amore, protezione, attenzione, presenza, sincerità, dialogo. E ascolto.
Ho bisogno di un dialogo aperto e sincero, senza finte formalità. O mezze verità. Sono meno diplomatica, già poco lo ero prima. Trovo sia una perdita di tempo, un girarci intorno preferisco un approccio diretto. Essere ascoltata, non è un’azione così scontata. Quando ti senti giù, sentire che c’è qualcuno che ti ascolta, che gli importa di te, delle tue emozioni, di come ti senti, che ti dice di volerti bene, è più di una medicina. La si dovrebbe somministrare con regolarità. Vuoi mettere avere al tuo fianco chi ti ascolta e che ti stimola a non tenere tutto dentro? Ma i nostri familiari, sanno districare anche questo bandolo?
Facciamo un piccolo test: pensiamo a tre parole negative. Le mie sono paura, rabbia, dolore.
A vederle scritte, mi sembra tanta roba. Parlarne con qualcuno predisposto all’ascolto, meglio sarebbe farlo con un professionista, varrebbe togliere peso che a lungo andare si potrebbe trasformare in macigno. Sentire la presenza delle persone, non mi serve una folla, me ne basta una, mi fa percepire amore. E che posso avere sostegno.
Familiari | Ma chi aiuta chi ci aiuta?
Questa è una malattia che non colpisce solo in prima persona. E i nostri cari, chi si cura di loro? Essi svolgono un compito impegnativo, a livello fisico e psicologico. Stare accanto a una persona cara, ammalata, è davvero gravoso, a maggio ragione se reprimono sentimenti ed emozioni, per dare libero spazio alle altrui. I familiari non sono immuni da rabbia, paura, impotenza, turbative importanti che destabilizzano. E al loro chi ci pensa? Chi li aiuta? Se noi come ammalati ci rendiamo conto di avere bisogno di aiuto, i nostri cari inconsapevolmente sono restii a farlo. La malattia colpisce il nucleo familiare. Gli effetti collaterali di un percorso debilitante minano le fondamenta di un rapporto di coppia, che pur se fondato su basi solide e importanti, agisce come un terremoto. Le scosse a volte sono così forti, da sfiancare.

E scossone dopo scossone ci si ritrova a dover riemergere da tutte quelle macerie, che altro non sono che quelle parole, il nostro piccolo test, che abbiamo trattenuto, che non abbiamo saputo far uscire, che ci rimbombano in testa.
E che a lungo andare si sono trasformate in macigni.