«Senta, non saprei proprio di cosa scrivere».
All’inizio di questa avventura, quando mi è stato chiesto se volevo cimentarmi nella scrittura, definire ostico l’argomento proposto, mi è parso davvero poco.
«Dica ai medici qualcosa che non sanno».
«Ma che caspita posso mai dire? Sono medici!»
Come se avessero i super poteri. Come se sapessero tutto. Come non fossero persone, prima che professionisti.
Temo di avere omesso un dettaglio importante: qui i pazienti sono tutti Oncologici.
Ho deciso di volerne scriverne. Pensare che dove dialogo c’è una cura migliore poiché parte dalla persona, mi ha spronato a farlo. E se mai dovessi riuscirci, anche solo a trattare l’argomento, vuoi mettere la soddisfazione? Ma per farlo devo dare qualcosa di me. Ci proverò.
Ascoltare | Comprendere
Quello che secondo me i medici non sanno, è che da paziente non voglio essere solo ascoltata, ma compresa.
Che qualcuno mi ascolti non significa che sarò capita. Se mi ascolti e ti dico che c’è qualcosa che non va, devi sforzarti e comprendere che io conosco il mio corpo. Non mi sto lamentando. Ti sto dicendo che qualcosa proprio non va.
Se avessi insistito, se non mi fossi fatta condizionare, se avessi chiesto, alla nausea, un approfondimento.
Questa frase mi aveva sospinta a tacere, ritornando a essere solo una paziente che si fida/affida ai propri medici. Ho ignorato i segnali prendendo le distanze dal mio corpo.
A volte il perché non c’è. Non credo abbastanza in me. Non riesco a scindere, giusto e sbagliato. Non so dare una corretta collocazione alle cose. Anche nella vita di tutti i giorni. Faccio, propongo, ma non so se sto facendo bene o male. E allora chiedo agli altri. Ma non è una mia decisione, bensì una scelta comune. Come se quello che penso o dico, non debba mai andare bene. Ma già lo so, dipende da me. Sono io che non stimo me stessa, non nella giusta misura.
Avere bisogno del consenso altrui, è una gran fatica. Mi impegno per agire in autonomia, ma va a finire che sbaglio. È successo qualche giorno fa. E dopo che me lo hanno fatto notare, sembrava così logico, dopo.
«Deve imparare a gestirsi».
Ma che caspita, non sarei seguita se riuscissi a farlo, o no? E poi, mi si chiede anche di non darci un peso esagerato. La verità? Mi sento una scema, ho cinquantatré anni e sono arrivata al punto di non sapermi gestire.
E mi ritrovo a pensare. Ma sono sempre stata così? O è la malattia che mi ha scosso tanto da non sapere più chi sono, quello che voglio, cosa è giusto o sbagliato? Non me ne ricordo, o meglio, credo di essere stata una persona che sapeva prendere le giuste decisioni, senza cercare consensi.
Ecco, anche questa per me è un’altra cosa che i medici non sanno. Il dispiacere che proviamo nel comprendere che non saremo più le persone di prima. Non eravamo né migliori né peggiori, ma persone che vivevano, senza la fatica di vivere. Perché quando con la malattia ti si para davanti la paura di non farcela, in primo luogo devi arrivare a capire che si tratta di paura, poiché i sentimenti, seppure tuoi, non li riconosci più. Vivi sempre in bilico. Oggi va bene, domani non lo so. Il bastone e la carota. Sono stanca del bastone, vorrei più carote. Mi spiego.
Non so mai quanto posso fidarmi, di me. Arrivo ad avere una discreta autostima, mi lascio andare un po’, ed ecco che sbaglio, ancora. Lo faccio, inconsciamente, dopo aver pensato e ripensato a come mi devo comportare per non ricaderci. Un tempo era tutto diverso. Non avevo grandi incertezze, non era tutto così… faticoso. C’era una scelta da fare? La facevo, e che caspita!
Ma sono sempre stata così? O è la malattia che mi ha scosso tanto da non sapere più chi sono, quello che voglio, cosa è giusto o sbagliato? Non me ne ricordo, o meglio, credo di essere stata una persona che sapeva prendere le giuste decisioni, senza cercare consensi.
Un’ulteriore cosa che forse i medici non sanno è l’impegno che ci mettiamo, per me è così, per rigare dritto. Per non commettere errori, per non sentirmi sempre sotto esame. Per non sentirmi a nudo. È così che ci si sente. Si è costretti a mettersi a nudo, di continuo. Devi farlo con il corpo, con i sentimenti. E devi contrastare il pudore per esserti mostrata fragile.
Giorni fa, mi sono dovuta scusare con un medico. Ero in ospedale per un esame clinico strumentale, mi domandava dei pregressi. Ancora una volta mi si chiedevano dettagli da cui tentavo di allontanarmi.
«Ma consulti il PC, lo può leggere nel mio fascicolo sanitario, perché devo mettere in piazza la mia privacy? Lei si ostina a chiedere, perché non se lo legge?»
Quel medico mi guardava, stranita, mi ha spiegava di non essere in piazza, che il suo mestiere è curarmi, che lo faceva per il mio bene. Sapevo di aver sbagliato ma ancora una volta ci sono arrivata tardi. Sono grata a quel medico per aver compreso. Gliel’ho detto, scusandomi ancora e ancora. Sono certa che ha capito. Che conosce quel disagio che ci portiamo dentro, che talvolta ci fa sparlare, con parole e modi che non ci appartengono. Sono certa, lo sa.
Immaginare | Sapere
Un’altra cosa che i medici, che i sanitari tutti non sanno, è il bene che proviamo noi ammalati patologicamente impegnativi, per le persone che si prendono cura di noi. Certo che se lo immaginano, ma non credo sappiano che ci portiamo a casa ogni respiro, ogni singola parola, ogni minimo gesto d’affetto.
Perché capita che le mura di un Ospedale diventino la tua seconda casa. In una casa ti aspetti di trovare persone care, persone che si prendono cura di te, che si preoccupano per te. Che ti vogliono bene. E quando accade, quando percepisci le loro apprensioni, le loro gesta, senti venire meno il pensiero della malattia, perché hai intorno a te persone che si adoperano per farti stare bene.
Non lo fanno solo per mestiere.
Sono persone che si adoperano per il bene di altre persone.