La vita in un sacchetto

Quando i TG hanno passato la notizia dei contagiati di Wuhan, ho chiesto a un infermiere se esistessero linee guida a cui “il mondo sanitario” avrebbe dovuto attenersi, e se potevo reperirle.

«Perché è chiaro che il Covid arriverà».

«Non è possibile delineare quello che non si conosce».

A marzo 2020 ci hanno imposto di isolarci, di fermare ogni attività e di restare a casa; vedere le nostre famiglie significava fare circolare il virus, ci si doveva proteggere.

Se ripenso a quei giorni di isolamento in cui non uscivo manco per la spesa, mi vedo sgattaiolare fuori all’imbrunire, camminare per viottoli campestri ben oltre i duecento metri dall’abitazione: mio marito mi teneva per mano. Non parlo di romanticherie, ma di puro appoggio fisico. Sbandavo, manco dovessi fare la convergenza.

Essere bloccata in casa, mi faceva temere che sarei tornata a trascinare i piedi, regredendo a quando non camminavo che per poche centinaia di metri, e nei centri storici mandavo a quel paese sampietrini, bolognini, pavimentazioni stradali con basolato lavico e chi li aveva posati.

Quando a Milano per l’Expo non riuscivo a tornare in stazione, quando un tassista a Torino mi diceva che per arrivare al B&B avremmo impiegato il triplo del tempo che non a piedi, quando a Treviso un autista applicava la tariffa minima, “che se passa per il centro deve percorrere seicento metri appena”, eccome se mi sono vergognata.

A parlare di pandemia, non so bene come affrontare, non il virus, le persone.

Rimango ferma, immobile. Aspetto che cambi qualcosa. Non capisco me stessa, men che meno gli altri, percepisco tanta ostilità, riconosco la rabbia. So da dove proviene.

A pensare a chi litiga, a tutto quel livore condiviso in rete, ci leggo impoverimento sociale. Bastasse l’animosità, le critiche si sprecano. In momenti in cui dovremmo fare gruppo, essere una comunità, il rapporto umano se ne va a farsi fottere.

‒ Devo restare umana, ‒ mi ripeto, ‒ anche se patisco la solitudine e a starmene da sola a parlare mi si ingarbugliano le parole.

– Vuoi vedere che a rinunciare dovrò essere ancora io!? Avrei già dato, sono stanca, vorrei tornare a vivere, come e dove voglio, essere libera di andare, non so dove. Vorrei solo essere libera. Lo dico a mio marito, che ben capisce da dove scaturisce la mia fame di libertà.

Vivere rinchiusi, non equivale a sottomissione? E a sottovuoto?

Come stonano certe parole all’evidenza di quello che è stato: persone che stramazzavano a terra, in attesa di ambulanze che sarebbero arrivate dopo ore, i corpi dentro a sacche mortuarie, da sistemarsi non sempre nelle bare, camion militari che transitavano di notte illuminati dai lampioni, e gli sguardi storditi di chi indugiava sui balconi di casa. E ancora, persone che in quei terrazzi suonavano da Sally di Vasco Rossi, alla colonna sonora di C’era una volta in America, composta dal maestro Ennio Morricone, o che sorseggiavano un caffè in compagnia del vicino fronte palazzo, per anestetizzare l’incertezza di quanto poco si sapeva.

Come stridono quelle voci rabbiose che tutto sanno e che tutto dicono: dall’operatore ecologico al virologo, dal politico allo speaker radiofonico, dal giornalista alla madre di famiglia, il pensionato che vuole vivere a modo suo, gli spritz che sembra ci interessi solo quello, negazionisti e proteste statiche, Governatori che se non sei produttivo per la Società, puoi anche restartene in disparte.

A cercare di trovarne un nesso, mi si sono aggrovigliati i pensieri, fino ad arrivare al paradosso.

E se fosse un’enorme patologia tumorale, quella che l’umanità intera sta vivendo?

Servirebbe a capire cosa si prova, si avrebbe la percezione del tempo rubato che non tornerà più?

Subire un trauma, essere costretti a rallentare, sprona ad apprezzare le piccole cose.

Non vi sembrano più vivaci i colori dei tulipani, adesso? E i tramonti non somigliano a quadri d’arte contemporanea, con le nuvole pennellate di rosso?

In quei giorni in cui stare chiusa in casa per me non era che un dejavu, in quest’altri che rientrare nella zona gialla poco mi cambia se la mia quotidianità è regolata dai decreti, se rientro tra quelli che “… aveva patologie pregresse”, se sui social è come essere nella fossa dei leoni, se accantonare pensieri, desideri, sogni, rientra nella normalità, mi sento come fossi chiusa in un barattolo e dovessi restarci fino alla prossima stagione.

Ho anche pensato che forse, forse, adesso tutti possiamo avere la percezione della discrepanza tra vivere e sopravvivere.

Essere in salute e convivere con una malattia.

Vivere senza tanto pensare e pensare a come continuare a vivere.

Il mio lockdown è iniziato a gennaio di sei anni fa, per una sorta di esperienza a puntate. Il titolo potrebbe essere, “La mia vita nonostante il tumore”, tra una prima patologia e una seconda, diversa, con chemio e radio annesse.

Quattro interventi chirurgici in quattro anni, tutti eseguiti a marzo. Anche mio padre se ne è andato che era marzo, di domenica. Suonavano le tre. Da allora quando mi sveglio, l’orologio segna sempre le tre.

Di frequentazioni in queste mie quarantene meglio non parlare, si impara ad andare oltre, a stare da soli, a bastarsi.

Le cure, le priorità riempiono le giornate. C’è la famiglia a cui pensare, i genitori anziani vanno preservati.

A rincorrere i desideri non sai se te li puoi permettere, di aspettative è meglio non farsene troppe; la rabbia ti raspa la gola, ché i sentimenti fanno sempre il comodo loro.

Vivere in un lockdown che si trascina nel tempo, non è altro che imbustare la propria vita, il quotidiano, i sentimenti, metterli in un sacchetto che resista al trascorrere del tempo, riporvi quanto di prezioso, e aspettare che passi.

Poi, ritrovarci ogni cosa, solo che è come quando cerchi di sistemare i calzini spaiati di tuo marito.

Non ti basta più.

Non lo vuoi più.

Non lo riconosci come tuo.

Perché le priorità sono cambiate e vedi il mondo con occhi diversi.

Perché il più delle cose ti annoiano e le futilità ti urtano i nervi.

Perché senti il bisogno di non accontentarti mai più.

Perché la tua vita non è più quella di prima.

E il solo pensiero che la malattia ritorni, più forte, più aggressiva, ti fa desiderare di andare avanti, ché se non lo fai, avrai davvero perso il tuo tempo.

Ma, se l’umanità intera fosse davvero messa alla prova? Intendiamoci, il Covid 19 è lontano mille miglia e più, dal poterlo paragonare a una patologia tumorale, classificata infausta. Ma se così fosse, riuscirebbe a trovare una stabilità emotiva nel vedersi, soli, di fronte a una malattia così complessa? A vedersi scansare per lo schifo? A vedersi… che le persone non ti vedono più?

Avete mai provato a disconnettervi emotivamente per non provare dolore?

E a escogitare cose per costringervi a non pensare?

Quella mattina di fine marzo, su WH1, i Depeche Mode cantavano Where is the Revolution.

Sarà stato il ritornello, il torpore del risveglio che a volte manco capisco dove sto di casa, ho iniziato a ballare al ritmo dei Depeche.

Alle 7.00.

Di un sabato mattina.

Io che danzo.

Al ritmo dei Depeche.

Che manco ricordo di averli mai ascoltati.

E mi sono messa a campare ipotesi, su come avrei potuto fronteggiare, il prossimo, immancabile, attacco di scrotociclosi.

Dimenandomi, mi dicevo che da lì in poi, nei momenti di tristezza, avrei potuto riascoltare Where is the Revolution.

Mi sentivo sottosopra, ma spensierata come non mai, da tempo immane.

Where is the revolution?

Where is the revolution?

You are letting me down

Where is the revolution?

Come on, people

You are letting me down

Cantavo, come potevo. Pensavo alla mia di rivoluzione, e parlando tra me e me, mi dicevo che ero sulla strada giusta, che da lì in poi mi sarei sentita più distesa. Me ne ero quasi convinta.

«Cosa ne sapranno mai della Rivoluzione i Depeche?» ho iniziato a congetturare.

E mi chiedevo, «Ma dove sta la rivoluzione tra i muri di casa mia? I più sono già in piedi a quest’ora, anche da prima che levi il sole.

Ah come sono utili i dialoghi interiori, ne facessimo a cadenza fissa, male non farebbero di certo.

La mia rivoluzione sono le persiane già alte, la voglia di vedere arrivare il giorno, il sole che rivela i colori celati nella notte, rassicurare mio marito con un sorriso.

La mia rivoluzione sta nell’avere voglia di fare. Qualcosa. Cercare di dare un senso a una vita diversa. Vissuta sottovuoto per pandemia, stigma, patologia.

Sta nel giorno che inizia, la luce che entra dalle finestre, picchiettare sulla tastiera del PC, buttare fuori quanto mi si imbriglia dentro.

La mia rivoluzione sta nel lasciare andare la vita di un tempo, accettare di poter avere un nuovo inizio e trovarne il senso, consiste nel bastarmi, nel credere in me stessa, amarmi, sta nell’alzare lo sguardo e nello scorgere quanto di bello c’è anche in me.

Sta nell’andare avanti, un passo alla volta, senza farmi sovrastare dalle paure di un tempo o da quello che potrebbe essere, rispettando la vita, per me, per le persone che l’hanno lasciata, portando avanti un po’ del loro essere, del loro sentire, anche grazie alla scrittura.

Oltre a viverle nei miei pensieri cerco di portarle nei miei racconti; scriverli mi aiuta a percepire di essere al di là dei muri che rinchiudono e tengono lontane le persone.

Che già lo fa di suo, qualsiasi patologia tumorale.

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